Anche lo spamming finisce nelle aule di giustizia!
Il diffuso e odiatissimo spamming, ovvero l'inoltro automatico ad un numero indefinito di indirizzi di posta elettronica di messaggi non sollecitati a carattere pubblicitario, finalmente è stato oggetto di una pronuncia giudiziale piuttosto severa. E non può che salutarsi con soddisfazione la condanna di 1000 € (con pubblicazione della sentenza su quattro quotidiani e un settimanale!) irrogata dal Giudice di Pace di Napoli (sentenza 7-10 giugno 2004) ad una società per aver inviato ad un privato cittadino - che non aveva prestato il suo preventivo consenso in tal senso - un messaggio pubblicitario con cui, a grandi caratteri, proponeva l'acquisto di numerosi articoli sportivi. Nelle motivazioni della sentenza in parola si afferma che gli indirizzi di posta elettronica sono dati di carattere personale e, tra l'altro, si legge "l'invio di posta elettronica indesiderata nella fattispecie è illegittima sotto due profili: da un lato per la scorrettezza e illiceità del trattamento dei dati personali dell'attore da parte della convenuta e dall'altro lato (n.d.a. perchè) provoca una illegittima intrusione e invasione nella sua sfera di riservatezza come stabilito dal Garante della privacy". Pertanto, la società convenuta è "responsabile per fatto illecito ex articolo 2043 c.c. essendo chiaro e definito il nesso di causalità tra l'evento ed il danno ingiusto subito dall'attore". A questo punto si rendono indispensabili alcuni brevi precisazioni. Il fatto di cui si discuteva in giudizio era avvenuto il giorno 3 settembre 2003 (data in cui l'attore riceveva l'email non sollecitata e a carattere pubblicitario), quindi, sotto il vigore della normativa sul trattamento dei dati personali (legge 675/96) antecedente al Codice sulla protezione dei dati personali (così detto Codice della Privacy - d.lgs. 196/03). Orbene alla luce della legge 675/96, tra l'altro, "chiunque cagiona danno ad altri per effetto del trattamento di dati personali è tenuto al risarcimento ai sensi dell'articolo 2050 del codice civile" (art.18). E nel caso di specie, lamentando l'attore di aver subito un danno per effetto del trattamento dei suoi dati personali, avrebbe dovuto farsi più opportunamente ricorso alla norma di cui all'art. 2050 c.c., dettata in tema di responsabilità per attività pericolose (alle quali deve essere ricondotto il trattamento di dati personali). Norma, peraltro, che avrebbe liberato l'attore dall'onere di provare il lo stretto nesso di causalità tra il danno subito (anche di natura non patrimoniale ai sensi dell'art. 29, 9 comma) e l'azione colposa del convenuto, essendo sufficiente, quando si chiede l'applicazione dell'art. 2050 c.c., dimostrare il fatto storico da cui è derivato il danno rimettendosi, poi, al convenuto l'onere di dimostrare di aver adottato tutte le cautele per evitare il danno stesso (cd. principio di inversione dell'onere della prova). Non solo. Qualche ragionevole dubbio sorge anche in merito alla competenza dell'Autorità adita, ovvero del Giudice di Pace, prescrivendo l'art. 29 della legge n. 675/96 che tutte le controversie che riguardano, comunque, l'applicazione della presente legge, sono di competenza dell'autorità giudiziaria ordinaria. In definitiva, nel caso di specie si sarebbe dovuto instaurare un giudizio innanzi al Tribunale Civile e non al Giudice di Pace e avrebbe dovuto invocarsi l'applicazione dell'art. 2050 c.c. e non già dell'art. 2043 c.c..